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lunedì 6 aprile 2020

ARTICOLO: This Time is Different?

Sono trascorsi dieci anni dalla pubblicazione del pregevole saggio degli economisti Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff intitolato “This Time is Different: Eight Centuries of Financial Folly” (Princeton University Press, 2009). Quanto descritto dal titolo del saggio è il commento che oggi riportano molti giornali ed addetti ai lavori, sul tipo di shock economico cui tutti noi stiamo assistendo.
Lo storico dell’economia, però, abituato ad un’analisi di dati distribuiti su un ciclo temporale più lungo, ritroverà oggi degli schemi più famigliari di quelli di molti altri economisti, cresciuti studiando libri di testo che riportavano dati sulla mortalità analizzanti da un punto di vista che non conosce più le crisi epidemiologiche dell’antichità e per i quali ormai “si è passati da malattie trasmissibili da persona a persona a malattie degenerative non trasmissibili” (cit. Malanima, 2003).
Il dogmatismo di alcune posizioni scientifiche in merito viene oggi smentito da un fenomeno, una crisi di natura sanitaria globale (pandemia) che lo storico sa essere una costante che periodicamente affligge la realtà umana e travolge i rapporti sociali, le istituzioni ed il sistema economico. Per fortuna su cicli lunghi. L’Economia viene riportata, in questo, alla sua natura originariamente umana che si sottrae a regole fisse e rigide analisi quantistiche.
Come sempre accaduto ci si trova quindi parzialmente stupiti ad affermare “This Time is Different!”, sapendo già che le vicende umane non rispondono mai esattamente alle stesse ‘regole’ che sembrano averle condizionate in passato, ma sono comunque analizzabili nella loro complessità indistinta poiché gli ingredienti delle nuove congiunture sono prevalentemente gli stessi.
Analizzando il passato la storia delle pandemie non ci racconta nulla di buono. Nel passato le epidemie erano eventi cui l’uomo era abituato, crisi cicliche e diffuse che si abbattevano sulla società come le guerre e le carestie, tanto spesso da essere tra le sciagure più temute: l’apostolo Giovanni nella sua Apocalisse vi associa addirittura la figura dei cavalieri. Oltretutto questi infausti eventi avevano un buon grado di correlazione: erano le carestie che indebolivano le difese immunitarie incrementando la possibilità di diffusione delle epidemie ed erano i conflitti sociali e politici che spesso erano causa di carestia, veicolo di contagio e conseguenza di periodi di penuria.
Le pandemie, però, erano eventi più rari e globali. Se il tessuto economico e sociale erano duramente provati dalle crisi epidemiche, le pandemie rappresentavano periodi di cesura netta, causavano la caduta di imperi e producevano un cambiamento nel modo stesso di concepire la società. Secondo alcune tesi (W.Bernstein, 2008) la morìa del 25% della popolazione di Costantinopoli nel biennio 541-42 sottrasse all’impero guidato da Giustiniano le risorse umane ed economiche per realizzare la ricostituzione di quell’Impero Romano che a livello politico era già stato, con grande sforzo, riunificato. Gli effetti globali della pandemia avrebbero poi ribaltato i rapporti di forza mondiali favorendo nei decenni successivi le popolazioni insediate in climi più ostili ai veicoli di trasmissione del contagio (quali gli adepti dell’islamismo dell’arida penisola araba) e più lontani dalle fitte comunità urbane che ne vennero falcidiate. In altre parole avrebbero aperto le porte al Medioevo con la ‘nuova forma’ (L.Leciejewicz, 2000) con cui noi oggi lo conosciamo. La pandemia del XIV secolo è tradizionalmente considerata dagli storici come un momento di definitiva cesura con modelli politici e culturali precedenti e la nascita di un nuovo modo di rapportarsi alle risorse.

L'impero di Giustiniano: quando nel 542 l'imperatore si ammalò di peste Belisario, il celebre generale autore di gran parte delle sue conquiste, dovette rientrare a Costantinopoli. A seguito di questa crisi iniziarono i primi tentativi di controffensiva (quali quelli dei Goti di Totila in Italia) alla ri-conquista giustinianea. L'Impero Romano d'Oriente dimostrò di non avere le risorse per consolidare le terre ri-conquistate a partire dalla scomparsa, nel 565, sia dell'imperatore che del suo generale.
La pandemia del XIV secolo, invece, è stata tradizionalmente considerata dagli storici come un momento di definitiva cesura con equilibri politici e culturali precedenti (con la marginalizzazione di una concezione feudale di ‘Stato locale’ che però si riconosceva in sistemi globali ed universalistici come la Chiesa e l’Impero) e la nascita di un modo nuovo di rapportarsi alle risorse. Dopo i 40 anni circa di depressione che la seguirono (variabile da zona a zona, con poche aree, quali la Polonia, che ne uscirono relativamente illese ascendendo in seguito alla pandemia allo status di potenza europea di primo piano con la dinastia degli Jagelloni) si rivoluzionò l’applicazione della tecnica in luogo di una forza lavoro divenuta meno abbondante, tendenzialmente meglio salariata (consentendo un maggiore margine di surplus economico che divenne luogo d’essere di un ceto borghese in crescita) e costosa da impiegare nelle lavorazioni artigianali più complesse che si cercava di automatizzare e semplificare il più possibile, si pensi alla lenta e costosa produzione libraria a mano che venne sostituita e rivoluzionata dalla tecnica a stampa. Ovviamente l’innovazione tecnica, giuridica dell’Umanesimo e poi del Rinascimento richiedeva anche capitali da impiegare generati secondo molti storici dall’economia anche dal surplus generato da una produttività marginale più alta ottenuta da un miglior rapporto tra domanda e fattori produttivi meno scarsi (si pensi all’abbandono dei terreni marginali messi a coltura fino alla prima metà del XIV secolo a favore di aree più intensive).
Senz’altro la crisi pandemica attuale si abbatte su una società ed un sistema economico molto diverso, più avanzato come grado di complessità e disponibilità di mezzi tecnici rispetto a quello dei secoli passati. Mai come oggi le conoscenze sanitarie sono in grado di contrastare l’azione della natura e la comunicazione e le potenzialità che questa offre quanto alla coordinazione di sforzi comuni non sono neppure lontanamente paragonabili. Per questo è possibile che i suoi effetti siano molto più contenuti che in passato. D’altra parte, però, la pandemia si diffonde in maniera molto più rapida, in una comunità umana esponenzialmente più numerosa ed in un substrato sociale non abituato a confrontarsi con problemi simili, laddove appunto il problema delle malattie trasmissibili da uomo a uomo o da animale a uomo era relegato in un breve paragrafo dei libri di storia.
Il contesto in cui questo evento viene a colpire è quello di una maggiore specializzazione del sistema economico, fatto di legami avanzati, ma al contempo in un sistema in cui una più fitta rete di legami può essere compromessa. Banalmente la pietra della pandemia, anche se più piccola, può cagionare un danno più rilevante dentro una cristalleria che contro le mura di un castello.
Lo shock sull’economia reale è oggi stimabile, ipotizzabile, ma ancora di là da vedersi. I mercati finanziari, che possono essere visti come un apparato circolatorio utile ad una diagnosi delle patologie del sistema, tendono ad anticipare sulla base di analisi di prospettive, ma anche di ansie e paure, l’evolversi della situazione economica.
I mercati sono stati colpiti in una prima fase da una crisi da cosiddetta ‘tempesta perfetta’, termine caro a chi osserva i forti ed improvvisi picchi che ciclicamente ed inesorabilmente si susseguono nel loro andamento. In pochissimi giorni le notizie sulla diffusione del virus hanno permesso ad uno stato di paura pura di subentrare sostituendo un precedente periodo di decisa euforia alimentata da lunghi corsi di politiche monetarie accondiscendenti. Dalla sovra-percezione della redditività del mercato uno scenario così incerto, con connotati così lontani nel tempo e nella memoria, ha condotto ad una fase di sovra-percezione del rischio. E’ inevitabile che la percezione cambi nei mesi seguenti, ma non è possibile per lo storico, né per l’economista o l’analista onesto, avanzare solide stime su un periodo futuro che non è ambito di studio dell’uno né di analisi dell’altra, poiché molto dipende da decisioni ancora da prendersi e dall’impatto di troppe variabili su un sistema globale.
Alcuni economisti si sono affrettati a descrivere la presente crisi come simmetrica dal punto di vista della domanda e dell’offerta. È evidente che nella sua prima fase, nella sua eruzione, il problema è questo: pochi possono comprare, pochi possono produrre. Non è la liquidità del sistema il problema, poiché è l’unica (al momento) disponibile e viene messa sul piatto per rassicurare e sorreggere l’economia. Non si tratta di una crisi di domanda/offerta uguale a quella di un conflitto bellico, sebbene esistano delle analogie: i fattori produttivi, da un lato, non sono distrutti e la forza lavoro, dall’altro lato, non è impiegata altrove a tempo indeterminato. Può trattarsi quindi di una sospensione dell’attività che potenzialmente può essere riattivata a condizioni prossime, alle precedenti. Il problema è qualora questo shock simultaneo domanda/offerta, che compensa in qualche modo l’assenza di produzione con l’assenza di consumo, si sbilanciasse in direzione di una delle due.
Probabilmente “this time is NOT different” rispetto a quanto l’umanità ha già sperimentato in altri contesti nel passato, ma l’evoluzione degli eventi e dei processi economici può ancora prendere diverse vie.
Da un lato può esserci una funzione pubblica, istituzionale, a farsi carico di gran parte del peso dell’attuale shock, scaricando come un ammortizzatore uno squilibrio che non deve essere fatto gravare sui fattori produttivi. Questo permetterebbe a livello teorico al motore dell’economia di essere riavviato e rimesso in moto senza troppi danni alle sue parti costituenti. Il problema è che questo peso da sopportare è indubbiamente l’azzardo che ha più probabilità di successo, ma anche il più rischioso. Il debito pubblico è un macigno che, se generalizzato e globalizzato, può poi sfogarsi tramite meccanismi di svalutazione/default più o meno controllati, generando verosimilmente depressione di alcuni settori economici che potrebbero poi trasformarsi in una crisi asimmetrica oltretutto priva di una forza istituzionale che possa agire al suo interno come un fattore di stimolo adeguato.
Indubbiamente una sovra-nazionalizzazione dello sforzo permette di distribuire gli impatti negativi del medesimo. L’ultimo trentennio ha visto emergere a livello geopolitico un quadro di grandi unioni sovra-nazionali o sfere d’influenza che hanno sostituito la divisione a blocchi contrapposti del mondo: la Cina e la sua area asiatica, l’Unione Europea, gli Stati Uniti con la loro influenza locale e globale, il tentativo di ripresa di un’egemonia territoriale anche da parte della Russia, la presa di coscienza di alcune economie emergenti ma ‘maggiori’ (i cosiddetti BRIC o BRICS) quali attori nel contesto globale. Tale sovra-nazionalizzazione non può però essere scevra da considerazioni particolariste: perché, banalmente, i seguaci dell’Islam avrebbero dovuto rinunciare ad esercitare un vantaggio competitivo ed una loro egemonia (nella pregevole ipotesi di Bernstein) laddove il contesto mediorientale e mediterraneo della grande depressione del VII secolo gli lasciava tale spazio? Perché delle economie che in un sistema globalizzato perfezionano i loro indici di produttività marginale attraverso la competizione dovrebbero ad un certo punto deporre le armi in un’ottica solidaristica che è essenzialmente aliena ai modelli culturali del libero mercato contemporaneo?
Infine, le conseguenze di un sovra-indebitamento nazionale di lungo corso in un’economia sviluppata sono note, ma di recente riscontro (es. i modelli sulla ‘giapponesizzazione dell’economia’) e le conseguenze di un forte indebitamento sovra-nazionale rappresentano modelli ancora da sviluppare.
In assenza di un forte controllo istituzionale lo shock potrebbe risolversi e riassorbirsi da solo. Storicamente l’economia moderna e contemporanea ha spesso trovato (come da tesi liberista) in sé stessa gli anticorpi contro i suoi stessi mali. Qualora questo non si risolvesse tuttavia assisteremmo ad uno shock via via più asimmetrico mentre le istituzioni più ‘deboli’ cedono e quelle più resilienti a questa particolare tipologia di crisi resistono. Banalmente molti pensano oggi a settori come l’Healthcare ed il Consumer Staples, ovvero sanità e beni di prima necessità, quali aree economiche che probabilmente hanno subito un minore congelamento della produzione a causa di una quarantena che ha costretto all’inattività temporanea un miliardo di persone nel mondo. In realtà i settori davvero resilienti li potremo giudicare tra qualche anno poiché anche durante le guerre mondiali si facevano ragionamenti simili sulle industrie pesanti beneficiate dalla riconversione bellica, ma furono quelle poi travolte da crisi di sovra-produzione a fine conflitto. Se lo shock, come verosimile, da esogeno all’economia divenisse un trauma che ne compromette il funzionamento, molto del suo decorso dipenderà da quali funzioni andrà a compromettere.
Sarà ben diversa una crisi di domanda, legata ad esempio alla mancanza di liquidità ed all’impossibilità di consumare di una larga fascia di popolazione con risorse ridotte, in qualche modo simile a quanto abbiamo già vissuto a livello globale circa un decennio fa, da una crisi d’offerta. Per chi nel nostro paese ritiene che la crisi dell’offerta, soprattutto se cagionata da elementi esterni e dal potenziale stagflattivo, sia meno aspra, non rimane che riflettere che nel caso italiano la gestione della crisi generatasi nel 1973-74 impose la messa in atto di provvedimenti di sostegno ai consumi ed all’economia (quali l’alleggerimento fiscale e la scala mobile) che generarono gran parte del debito che ha poi minato la prosperità del paese nelle generazioni successive.
A questo punto bisognerà valutare, per storici ed economisti, la riabilitazione di vecchi termini divenuti desueti, quali ‘Depressione’ in luogo di ‘Recessione’, per indicare un percorso di ristagno economico e decrescita di lungo periodo che fatica a vedere una ripartenza spontanea senza altri e ben più forti shock.
Ovviamente una soluzione di ancien régime alle crisi da pandemia rimane quella più naturale e biologica. L’esposizione della comunità ad agenti patogeni e la loro diffusione su una popolazione impreparata, trova la sua espressione in un riequilibrio demografico ‘naturale’ che fa poi da riallocatore automatico dei fattori produttivi. Questa brutale soluzione, ovvero assistere passivamente alla morte di massa e provvedere poi ad una ridistribuzione dei fattori produttivi in maniera più efficiente e con una produttività marginale più alta tra i superstiti, appare oggi inaccettabile per molteplici fattori. In primo luogo, perché la nostra è un’economia avanzata, che ha spostato la forza lavoro da un rapporto diretto con il settore primario, sviluppando complesse strutture (più produttive) ben lontane dalla materia prima, quindi tale riallocazione migliorativa dei fattori produttivi, forse efficace in età pre-industriale e prima dell’età dei servizi, oggi rappresenterebbe un tornare indietro di secoli. In secondo luogo, perché tutti i modelli in cui questi eventi sono occorsi in passato riguardano contesti già compromessi, come negli scenari post-bellici, o realtà precedenti alla nascita della cosiddetta società di massa. In una società di massa come la nostra non è noto se il controllo delle istituzioni sul caos che ne deriverebbe possa reggere e soprattutto se questo può essere fatto ad un costo inferiore rispetto allo scenario di un intervento forte dell’ammortizzatore istituzionale. Probabilmente le caratteristiche biologiche della pandemia, banalmente la sua potenziale mortalità e la sua pericolosità per la tenuta delle strutture sanitarie e sociali, possono essere fattori determinanti.
Quanto all’uscita dalla crisi è evidente che, qualsiasi sia la configurazione che essa assumerà nei prossimi anni, sarà asimmetrica tra i vari settori nella gran parte degli scenari. Esiste lo scenario secondo il quale il suo effetto sia attualmente sovra-percepito dall’economia e dalla psiche umana che vi è dietro, ma la semplice percezione di un problema è esso stesso un problema (o lo diventa) tanto nell’economia reale che nei mercati finanziari. Anche se non si faranno errori irreversibili come causare il default di istituzioni finanziarie o l’applicazione di politiche di lasseiz faire di fronte a scenari di depressione di lungo corso che comprometterebbero i fondamentali economici di una ripresa, è verosimile che questi vengano comunque messi a dura prova da una situazione sanitaria, e via via economica, globale e di non facile soluzione.
È ovvio che alcuni settori saranno più difensivi di altri. Ho già parlato di beni di prima necessità e sanitari e probabilmente delle utilities, che dovranno rimanere attive.
Altri settori, tipicamente, in contesti di shock tendono a svalutarsi, ma possono conservare in un orizzonte temporale più lungo un valore non del tutto endogeno al mercato che potrà tornare ed essere il motore di una futura espansione: l’immobiliare (legato a fondamentali non esclusivamente finanziari o correlati all’offerta produttiva), la produzione primaria (meno dipendente da una filiera articolata di servizi avanzati), le infrastrutture (target in passato di politiche pubbliche di stimolo economico), la tecnologia (che dispone di un know how messo in crisi da processi di obsolescenza non correlati a questo tipo di crisi), il settore assicurativo (che in una crisi di illiquidità è detentore di grandi patrimoni, seppure pericolosamente esposto ad eventuali svalutazioni del debito sovrano) ed in maniera minore e probabilmente in un secondo momento i beni a fecondità ripetuta. Infine, altri settori saranno ottimi candidati per crisi di più lungo corso e potenziali svalutazioni ‘lunghe’, da gestirsi con attenzione: il settore del credito, i trasporti, i beni ed i consumi voluttuari (dove però andrebbe fatta distinzione tra quei beni resilienti ad eventuali svalutazioni valutarie con conseguente inflazione quali il lusso, quei beni più consumer discreption di largo consumo sensibilissimi ad uno shock di domanda e quei servizi innecessari fortemente condizionati dalla de-globalizzazione ed alla ridotta mobilità umana quali sport, turismo e simili), l’energetico (ovviamente molto legato ad eventuali crisi da shock d’offerta).
Anche in questa crisi, come in molte altre, l’atteggiamento opportunista espresso nell’invito di Warren Buffet di interessarsi a qualcosa quando ‘nessuno lo fa’ sarà adatto a coglierne le occasioni, ma una buona diversificazione può rimanere l’approccio più resiliente. Come spesso nelle grandi crisi le regole scritte del gioco potrebbero essere soggette a repentini cambi, gli assiomi ed i postulati potranno trovarsi disattesi ed asset tradizionalmente considerati stabili e difensivi potranno rivelarsi come qualcosa di ben diverso (penso molto al debito pubblico).
Lo stesso approccio diversificato, capace di miscelare vari gradi di intervento istituzionale (locale, nazionale, sovra nazionale) e di pianificazione, con le potenzialità intrinseche al sistema economico di guarire da sé le proprie ferite (e questo è possibile quando gli si lascia il giusto grado di libertà e lo si condiziona solo a percorrere le giuste dinamiche), sarà secondo me il più efficiente anche a livello di politica economica.

P.C. 06.04.2020

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