Blog amatoriale con finalità didattiche, culturali, hobbistiche e di approfondimento. I contenuti spaziano da analisi e studi personali all'alfabetizzazione finanziaria. Non si fa consulenza, non si promuovo investimenti (ogni valutazione qualitativa è riflessione personale nello stile colloquiale del Blog). I portafogli sono "toy-model" costruiti volutamente complessi, adatti a capire temi e strategie, ma non per essere replicati come modello: si declina qualsiasi responsabilità in merito.
C'è un problema colossale sui mercati: la fine della decorrelazione tra asset diversi. E’ come se la crisi del 2008 avesse rotto il giocattolo dei mercati (giostra sulla quale il risparmio gestito fa pagare un alto prezzo d'ingresso). E’ come se per spegnere un incendio si fosse versato un mare di acqua (liquidità) che non solo non ha fatto rigermogliare l'economia da sotto la cenere (o almeno non ancora, non nei paesi periferici come il nostro), ma sta facendo arrugginire tutta l'ossatura del sistema, avvelenando di tassi bassi il credito in primis. L'obbligazionario si muove come l'azionario, le commodities pure, i fondi obbligazionari fix mlt perdono con i tassi in rialzo, quelli a duration breve pure… si favoleggia di duration negativa… ma a che prezzo? Gli High yield Short duration, ovvero obbligazioni un tempo chiamate spazzatura proposte universalmente come magica difesa dal ridursi della liquidità? Le valute con tassi più elevati scendono rispetto a quelle con tassi negativi… Quindi i signori gestori cercano di ‘decorrelarsi dalla correlazione’ (si perdoni il gioco di parole), quindi di allontanarsi dai benchmark tradizionali. Si diffondono irresponsabilmente (secondo me) fondi flessibili, Total return (o absolute che dir si voglia), ad alpha sistematico, sono rispuntati gli 80/120 e i fondi a leva. Cose bellissime ed affascinanti (soprattutto per gli addetti ai lavori) ma da usare in modo proprio, con il contagocce. Le repliche esotiche di benchmark teorici (e fittizi) come il Vix dell'articolo, ma anche il privex (ci rendiamo conto che vuol dire per l'economia mettere a benchmark cose come Atlante? Anche se in effetti nel 2016 è andato benone… non è come speculare sulla ristrutturazione, quindi sulla miseria?), l’abitudine ad applicare strategie long short come alternative al ‘bilanciato prudente’, etc… Quanti portafogli sono stracolmi di fondi ‘flessibili’? E quanti bilanciati 'tranquilli’ dichiarano nel prospetto di poter utilizzare leva 1,2 o 1,5 o 2 e di poter utilizzare derivati, o di poter investire in quote di OICR che ne fanno uso più o meno senza un valido risk management? Questa roba andrebbe collocata con il contagocce… Di fondi che, per come sono costruiti o per quel che contengono, possono 'esplodere’ ce ne sono tanti. Meglio posizionarsi alle volte su fondi globali, diversificati, che replicano l'economia globale. Poi ovviamente non tutte le strategie flessibili si traducono in perdite (vedasi il già citato FR0010923375) però secondo me si traducono in una quantità difficilmente valutabile di rischio. Per i clienti l'invito da buon padre di famiglia è a non farsi sedurre dai 'ghe pensi mi’ o dai 'prodotti buoni fidate’, ma mantenere strategie diversificate e solide, perché anche se il risparmio gestito in teoria non dovrebbe essere in conflitto d'interesse con l'investitore, poi le società coinvolte pensano ai Loro utili e scopi…
Un esempio: l’andamento di un ETF sull’azionario mondiale (Msci World), comparato ad un ETF in obbligazioni High Yield (alto rischio) ed uno di titoli di stato europei ad investment grade. Si noti come, dopo il 2015 le politiche di liquidità hanno impresso la medesima direzione di andamento a titoli solitamente antitetici (i bond high yield non sono paragonabili come rischio ai governativi, che sono solitamente ‘rifugio’ dall’azionario). Gli stessi movimenti (’onde’) si vedono nella ripresa dei mercati nella seconda metà del 2016 ed alla fine, dopo 13 trimestri, il rendimento e le fluttuazioni dell’high yield e dei governativi producono risultati assai simili.
Il commento ovviamente sarà ‘sì, bravo, fai come tutti i sedicenti analisti delle associazioni dei consumatori o dei tanti forum di finanza, che sanno smontare, con il senno del poi, le sicurezze, sanno criticare, sanno spargere il panico, ma non offrono mai soluzioni’. Beh, lo scopo del blog NON E’ assolutamente la consulenza finanziaria che, anche per norma di legge, non può essere fatta in maniera imprescindibile dal profilo dell’investitore. In generale però, a livello di mero esercizio intellettuale, decorrelarsi dai mercati classici (debito, azioni, etc…) si può anche senza strumenti ‘complessi’ o ‘flessibili’ o con strategie ‘total return’ che spesso si traducono in = Inutilmente Costose. L’immobiliare è rimasto, durante questi anni, un settore a mio parere decorrelato. Non troppo popolare, perché ha perduto i rendimenti dei decenni passati ed il mercato tende a premiare il successo, oltretutto si è dimostrato che molti investimenti proposti come ‘immobiliari’ (in particolare fondi immobiliari chiusi italici) si traducevano in campi di pascolo per palazzinari e campi di sfogo per quotazioni gonfiate da sovrindebitabento bancario. Ci sono però i REIT americane, che a mio avviso rimangono realtà più serie (anche se rischiose). Decorrelato (e rischiosissimo) è l’oro, metallo giallo che era spaventosamente costoso qualche anno fa durante la crisi, ma è sceso di valore. Più ancora dell’oro (sempre caro) ci sono le azioni delle società minerarie che trattano l’oro, i cui utili sono diminuiti a causa dell’inversione della tendenza alla crescita del metallo e che in alcuni casi si possono acquistare a quotazioni interessanti. Ma tutto così rischioso? Sì, perché i tassi bassi e le valute di riferimento (nel nostro causo l’euro) alti hanno almeno fatto calare la maschera al mito della ‘sicurezza’. Investimenti ‘poco rischiosi’ (i cari bei Bot al 18%) esistono a prezzo di inflazione, instabilità monetaria, tassi stellari. In pratica abbiamo l’illusione della sicurezza non perché l’investimento è stabile, ma perché questo lo è in un mondo che fluttua all’impazzata. Tuttavia in questi anni è diminuita molto l’inflazione… nell’ottica di una sua ripresa investire in inflation-linked (sebbene io diffidi un pò di caricarmi di debito in questi periodi) può essere una soluzione. L’ultimo discorso sono le valute: investire in valute non può seguire i mercati, e se si scelgono valute deprezzate rispetto al corso degli ultimi anni ma ampie come mercato di riferimento (esempio il dollaro) il rischio esiste, ma la possibilità che il nostro investimento si ‘azzeri’ oppure sprofondi in maniera drammatica per mai più risollevarsi è secondo me alquanto improbabile. Poi, se uno strumento complesso o flessibile, piace, va usato capendo bene cosa fa, e che tipo di investimento si fa puntandoci sopra, e puntandoci sopra solo quanto ci si può permettere di concentrare in quella strategia. Personalmente ho memorie gradevolissime di un ETF leva 2 long sull’indice Dax che acquistai a inizio 2009…
L’Economia della Crisi e la Crisi dell’Economia [appunto 1]
Nel 1596 una superpotenza dominava sui destini d’Europa, e di gran parte di quello che veniva considerato il mondo occidentale: l’Impero di Spagna. Un impero globale, su cui ‘non tramontava mai il sole’, come ebbe a vantarsi Carlo V. Ed in effetti Carlo V d’Asburgo aveva di che vantarsi: mai nessuna civiltà umana aveva creato un impero esteso su 3 continenti (Americhe, Africa settentrionale, Europa), un impero che in un’epoca in cui il denaro era legato a beni fisici (la ricchezza rappresentata dal conio, dal metallo prezioso in esso contenuto) poteva forse per la prima volta vantare riserve quasi illimitate di ricchezza (grazie ad approvvigionamenti quasi inesauribili di miniere d’oro che stimolarono la leggenda dell’Eldorado americano combinato al servizio dei primi grandi prestatori bancari organizzati dell’epoca moderna, banchieri come i Fugger), un impero che nella sua persona univa anche la corona del sacro romano impero, e faceva di lui, quindi il ‘re dei re degli uomini’ secondo la visione cristiana del mondo, ma senza un papa che gli si opponesse come era avvenuto per i suoi predecessori. Questo impero nel 1596 dichiarò bancarotta, per la quarta volta. I prestiti a breve termine, in gran parte garantiti dalle capacità finanziarie e dai depositi monetari della corona (e caratterizzati, in un periodo di spiccata inflazione, da tassi d’interesse elevati) venivano per decreto imperiale convertiti in titoli a lungo termine e ad interessi bassi. Oggi parleremmo di ‘rinegoziazione del debito’ penseremmo alla Grecia, all’Argentina… e la simmetria tra tali situazioni è tutt’altro che casuale. Dove erano finite le sterminate ricchezze della Spagna? Un solo tomo di migliaia di pagine non basterebbe a rispondere esaustivamente a queste domande. Rimando quindi agli scritti dei maestri, i vari Braudel, Elliot, Villari. Nei decenni che erano intercorsi dall’elezione di Carlo V a quel fatale 1596, che a mio parere ‘chiude’ il secolo del cosiddetto Rinascimento, enormi risorse erano state spese nella lotta contro una diversa concezione del mondo che si era diffusa a partire dall’affissione sulla porta di una chiesa, da parte degli allievi di un monaco agostiniano, di 95 tesi che avrebbero messo in crisi la concezione del mondo cristiano. La visione del mondo della Controriforma, con i suoi ori, i suoi fasti, le sue teste coronate, i suoi punti fermi, le sue opere d’arte, la sua edilizia, il suo potere terreno che voleva mostrarsi quale manifestazione del potere divino, si opponeva ai principi duri e puri, al rigore morale, ma anche alle frammentazioni ideologiche, alla lotta di classe di Muntzer ed i suoi tentativi di sovvertire l’ordine sociale, agli eccessi degli anabattisti, ed alle tante anime che caratterizzarono quella che voleva essere ‘La’ Riforma. I parallelismi tra la lotta tra il modello del socialismo e quello del capitalismo nel XX secolo sono essere interessanti. Da questo scontro-confronto la super-potenza dominante uscì piena di debiti, che travolsero l’occidente nel secolo successivo (un’altra storia già sentita?) facendo scoprire al mondo fenomeni come la deflazione e la crisi economica di lungo periodo. Fu questa la fine dell’economia? O l’economia stessa si reinventò, attraverso un processo che io definisco ‘economia della crisi’? Il risultato fu interessante… la “guerra totale” teorizzata (ed applicata) dal generale Wallenstein (la cui creatura si sarebbe poi imposta come modello, facendone un aspirante cavaliere dell’apocalisse per i tanti civili che ancora oggi pagano i costi della guerra nelle loro case), fece tabula rasa del nemico.
J. Callot (1635): Il Saccheggio di un Villaggio - Esempio di ‘Guerra Totale’.
La Germania, patria di Lutero, la più grande potenza europea dopo la caduta dell’Impero Romano, il centro del potere Carolingio e post-carolingio, cessò praticamente di esistere per oltre duecento anni (duecento anni di relativa pace se poi si pensa all’impegno tedesco per rimettersi in pari dal 1871 al 1945 e oltre…). Una vittoria di Pirro, l’avrebbero definita però i Romani, perché la fiamma dei principi protestanti, di quello che sarebbe diventato ‘lo spirito del capitalismo’ secondo il sociologo Max Weber, era destinata ad essere incoronata regina dalla storia. I principi dell’economia moderna, sorti da radici pre-cristiane (ebraiche in particolare), dimostrarono che la storia economica vince sulla storia militare, che la ricchezza è nulla senza produttività, che una piccola fiamma, vitale, può bruciare una sterminata selva di querce secolari. Dalla piccola Olanda, che nel tempo dell’economia della crisi aveva investito nella produttività, che non produceva nulla ma in cui non mancava alcun bene, che non possedeva miniere, né terre, ma dominava con le sue compagnie commerciali un impero di natura ben diversa da quello di Carlo V, ma di estensione addirittura superiore, nel 1689, tramite l’incoronazione di Guglielmo d’Orange, quei principi che Weber considera fondanti del capitalismo moderno, si diffusero in Inghilterra. Da allora (forse la vera fine dell’economia della crisi, e la nascita dell’era del capitalismo e della produttività) l’egemonia economica, il capitale, il progresso, sarebbero stati in grandissima parte anglosassoni e protestanti.
In questo contesto condivido sul blog un mio primo appunto (appunto 1) relativo alle caratteristiche e strutture di questa ‘Economia della Crisi’, da me pubblicato nel 2016 nel mio articolo ‘Il Colle Armeno e l’Ospedale dei Proietti’ (Frammenti d’Ossidiana, Universitas Studiorum, ISBN 978-88-99459-30-7 pp. 145-164).
“La transizione tra medioevo e modernità, così come analizzata da Bloch, prende avvio verosimilmente nello Stato Pontificio a partire dall’incorporazione delle signorie dei Bentivoglio e dei Baglioni ad opera di Giulio II (1503-1513). Ciò produce un consolidamento del dominio dello Stato in direzione delle città romagnole[1] e contemporaneamente incrementa il controllo diretto da parte del Papato su un territorio sottoposto ad un progressivo processo di accentramento amministrativo. Tale accentramento amministrativo si riconduce anche ad una centralità finanziaria ed economica della città di Roma. In questo periodo infatti si attuano grandi investimenti edilizi e tanta floridezza economica non è stata probabilmente più eguagliata nell’Età Moderna.
Il capitale finanziato venuto a crearsi viene amministrato ricorrendo al sistema dei Monti, già in uso a Firenze, Siena, Venezia a Genova. Tale sistema era ritenuto moderno per l’epoca, quanto a mezzi[2], ma con metodi che, citando Braudel, consentivano ai Papi di non incorrere nelle bancarotte che si diffusero a partire dalla fine del secolo, trasformando titoli vitalizi in perpetui, prestiti vacabili in non vacabili, abbassando i tassi d’interesse ed al contempo fornendo enorme liquidità al Papato ed alla nobiltà romana. L’insolvenza finanziaria della corona di Spagna[3], la più grande potenza economica europea nel secolo XVI, contribuì ad una crisi divenuta generale perché travolse l’intero sistema finanziario ad essa contemporaneo. La crisi economica aprì anche un periodo cupo dal punto di vista politico e sociale che sfruttava la leva religiosa e progressivamente si allargava a livello nazionale con l’obiettivo di riformare l’intero sistema istituzionale e filosofico.Il secolo XVII fu caratterizzato da depressione economica, deflazione di lungo periodo ed una serie di conflitti ai margini dell’impero che tenderanno a riscrivere la mappa delle aree d’influenza delle principali potenze mondiali, e sostanzialmente a spostare gli equilibri del potere e della ricchezza dai vecchi ceti dirigenti spagnoli e dalle élite finanziarie mediterranee verso le nuove potenze emergenti dell’area atlantica e nord-europea. Il Rinascimento aveva lasciato posto al Barocco.Alla “economia della crisi” che seguì questa crisi dell’economia, non poteva sfuggire lo Stato dei Papi che era sopravvissuto finanziariamente alla bancarotta, ma che doveva provvedere, come spesso accadeva in tali fasi storiche, ad un intervento pubblico per salvare un sistema finanziario fino ad allora in mano a istituzioni ormai obsolete o a banchieri privati insolventi. La mano dello Stato andò a cercare i capitali laddove si trovavano, conservati ed immobilizzati, trasmessi per secoli da un’amministrazione finanziaria ormai divenuta inefficiente e lacunosa rispetto alle nuove esigenze di un’economia che doveva necessariamente dotarsi di strumenti più avanzati per evitare la depressione.L’istituzione di un nuovo Banco presso l’Ospedale di Santo Spirito fu un caso di creazione di uno strumento evoluto che rispondeva ad esigenze di politica monetaria, di sostegno al debito pubblico e di pubblica garanzia[4]. I beni amministrati dai priori dell’Ordine di S. Spirito, di cui era titolare l’istituto dell’Ospedale, divennero con le loro rendite le garanzie materiali a tutela dei depositi del Banco di S. Spirito. La fondazione istituzionale del Banco di S. Spirito è del 1605, ma la pianificazione politica di tale opera risale a prima[5] poiché nelle fonti relative ai 178 priorati di S. Spirito, di cui ci è pervenuta documentazione attraverso l’archivio dell’Ospedale e dell’Ordine prima, del Banco poi, appare evidente la presenza di relazioni su ‘l’inventario dei beni del priorato’ tutte databili tra la fine degli anni ’80 del secolo XVI e la prima metà del decennio successivo[6]. L’attenzione ad un possibile inventario generale delle sterminate proprietà e rendite di cui l’Ospedale risultava titolare è probabilmente la base strutturale di una concezione moderna della proprietà quale garanzia del capitale finanziario: il fondamento del sistema economico che a partire dai secoli successivi e fino all’età contemporanea caratterizzerà il sistema economico europeo. I beni fondanti tale capitale si erano accumulati ed accresciuti nel lungo periodo della gestione che seguiva il “modo antico”: i monasteri obbedienti ad uno stesso ordine e ad una medesima regola avevano generato istituzioni ‘figlie’ e ‘sorelle’ in maniera quasi autonoma all’interno dei priorati.La cesura nella registrazione delle uscite e soprattutto delle entrate dell’Ospedale si identifica nei libri mastri del 1594 e del 1595[7], queste si riferiscono qui non solo ai feudi ed ai priorati, ma anche ai beni cittadini, alle donazioni, etc.. La più attenta annotazione ed un’analisi quantitativa di una puntualità insolita in età pre-statistica evidenziò alla Camera Apostolica il sostanziale stato di perdita costante in cui, nonostante un cospicuo patrimonio, versava l’Ospedale. Queste evidenze, tuttavia, vanno inserite in un quadro in cui l’effettiva presenza di canoni provenienti da beni distribuiti sul territorio che potevano essere monetizzati a Roma era relativamente rara, in un sistema che generalmente era giudicato ‘da contadino’[8] nella capitalizzazione dei beni, poco attento a massimizzare i flussi di cassa per drenare risorse economiche a favore della finanza romana. Le uscite, oltre che al sostentamento dei Proietti in generale (che comunque erano custoditi anche nelle molte strutture di assistenza sul territorio gestite dai diversi priorati) e degli ospiti dell’Ospedale in particolare, erano evidentemente reinvestite da un ente quasi unico per dimensioni e disponibilità all’interno dell’economia cittadina nell’edilizia, nell’occupazione, quale strumento di redistribuzione delle risorse e motore economico. Era evidentemente l’intenzione già dagli inventari del 1585-1595 e dalla revisione contabile degli anni 1594-1596, di trasformare il ruolo economico dell’Ospedale e dell’Ordine, delegandolo a questa istituzione finanziaria più moderna ed efficiente che fu il Banco, prima internamente all’Ospedale nel 1595, poi tramite la formale istituzione nel 1605. Tale politica può essere verosimilmente ricondotta al pontificato di Sisto V (1585-1590) cui si fanno risalire le riforme istituzionali che coinvolsero il Sacro Collegio, e va letta in parallelo alla politica di razionalizzazione delle spese locali che si concretizzò nella bolla Pro commissa nobis del 15 agosto 1592, con cui Clemente VIII (1592-1605) istituì quale dicastero la Congregazione del Buon Governo[9].Il Priorato di Pescina non sfuggì alla revisione amministrativa del secolo XVII, di cui ci fornisce traccia ‘l’inventario de beni stabili del priorato di Piscina ch’a posseduto anticamente e che possiede ancor’hoggi’[10] che censisce i beni, i lasciti e i canoni realizzati, seguì nel 1710 la sostanziale perdita dell’autonomia amministrativa. I beni del priorato vennero quindi affittati, e i proventi di tali affitti canalizzati presso l’ospedale di S. Spirito che avrebbe poi provveduto alle necessità delle sue ‘filiali’. Ovviamente questo sistema drenò risorse dal territorio, causando la sostanziale rovina di un sistema che era perdurato nella longue durée fin dal Medioevo. Procedendo a ritroso attraverso le fonti sarà possibile analizzare la transizione nei rapporti tra rendita, proprietà ed economia locale nel caso di studio. [1] F. Seneca, Venezia e Papa Giulio II, Liviana Editrice, Padova, 1962.[2] Le finanze e il credito al servizio dello Stato in F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino, 1986, p. 738.[3] La decadenza della Spagna e la Guerra dei Trent’anni (1610-1648/59) in Storia del Mondo Moderno, Volume 4°, Garzanti, Milano, 1971, pp. 89-90 e 104-105.[4] Si veda in merito, per un trattamento più specifico dell’argomento, L. De Matteo, Il Banco di S. Spirito dalle Origini al 1960, Roma, 2001.[5] Ibidem [6] ASR, Ospedale di S. Spirito, Libri Mastri Generali, b. 2844, b. 2847.[7] ASR, Ospedale di S. Spirito, libro mastro del 1594, b.2791 e ASR, Ospedale di S. Spirito, libro mastro del 1595, b.2793.[8] F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, cit. e L. De Matteo, Il Banco di S. Spirito dalle Origini al 1960, cit., p.11. [9] Si fedano in merito gli studi di Stefano Tabacchi, in particolare S. Tabacchi, Il Buon Governo. Le finanze locali nello Stato della Chiesa (secoli XVI-XVIII), Roma, Viella, 2007.[10] Tale inventario non è presente solo per Pescina, ma è stato redatto per tutti i priorati la cui documentazione è stata conservata presso l’Archivio dell’Ospedale di S. Spirito. ASR, Ospedale di S. Spirito, b. 1065/1.“
Tra le iniziative che personalmente giudico più deprecabili dell’ultimo governo vi sono i famigerati Piani Individuali di Risparmio (i cosiddetti PIR). Cosa è un PIR? E’ uno strumento di risparmio che dovrebbe indirizzare il risparmio di una persona (c.d. individuale) verso l’economia reale. In cambio lo Stato, se mantieni il capitale investito per almeno 5 anni, al momento del disinvestimento e solo ed esclusivamente in caso di guadagno, non ti farà pagare le salate tasse sul capital gain (attualmente al 26%). Possono essere ‘PIR’ dei fondi comuni d’investimento, polizze a contenuto finanziario, ETF, l’importante è che il 70% almeno dell’investimento sia concentrato in strumenti finanziari (azioni o obbligazioni) emessi da imprese italiane e di questo il 30% in imprese non incluse nell’indice della borsa, il FTSE Mib, il salotto ‘buono’ della finanza italiana. In pratica in aziende di piccole dimensioni!
Io non dico che un investimento in PIR non possa essere redditizio per l’investitore, né che le PMI non possano rappresentare, in generale, uno strumento interessante (generalmente più rischioso, ma interessante).
Quello che, personalmente, mi ripugna, è la finalità che sta dietro la costituzione di questo strumento in un momento come questo. Dietro la retorica dell’investire nell’economia reale ci sono altre realtà. Il debito pubblico italiano (altro condimento forte dei nostri PIR) è sovra-stimato, in pratica si paga molto più di quanto ‘vale’ in termini di prezzo-rendimento. Chi ha senso che lo detenga oggi è chi lo acquistò a prezzi più interessanti (e per qualche oscuro motivo da cassettista, o spirito da gestore di polizze vita tradizionali, è interessato solo al flusso cedolare e non al guadagno in conto capitale), oppure chi lo acquista con soldi non suoi, per l’esattezza stampati ad Hoc con la finalità di sostenere lo Stato ed aiutarlo a smaltire questo insostenibile debito (la BCE ed il famoso QE). Oltre ai soldi che ‘investono a perdere’ della Banca Centrale però i PIR finiscono per concentrarci anche i soldi sudati dei risparmiatori. E va bene dicamo… poi c’è il discorso delle PMI. Avrete sentito parlare degli accordi di Basilea, del credito non performante e quant’altro… oggi le banche hanno criteri di erogazione del credito molto diversi rispetto a pochissimi anni fa. Tutti i beneficiari di credito hanno un rating e per le piccole medie imprese i bilanci hanno un ruolo fondamentale. Già, i bilanci, nella patria del falso in bilancio e del ‘commercialista amico’ che taglia e cuce ad hoc (con il suo bel guadagno) per farci pagare meno tasse possibili… quante sono le aziende medie e piccole con un rating a tripla A? Anzi mi correggo… quante sono le aziende medie e piccole con un rating a tripla A che non riciclano denaro sporco? Pochissime… ed ecco il problema del finanziamento delle PMI, tramite emissione di Bond (obbligazioni, ovvero prestiti cui aderiscono collettivamente tutti gli ‘obbligazionisti’) e Azioni, ovvero capitale sociale. Ecco che, in concomitanza con un momento in cui le banche italiane hanno difficoltà ad erogare credito alle PMI il nostro ministro Padoan crea un sistema in cui il risparmiatore indirettamente (ma neanche troppo) fa quel lavoro che le istituzioni preposte (Stato tramite agevolazioni alle imprese, BCE che dovrebbe sostenere il debito pubblico, banche che dovrebbero fare credito alle PMI) non vogliono fare. E’ come se Rambo avesse paura a scendere nella giungla Vietcong e ci mandasse la casalinga. Questo non significa che non siano strumenti con caratteristiche comuni a molti altri, non significa neanche che non possano dare rendimento (il rischio spesso è un’altra faccia del rendimento, e qui concentrandolo in un’economia non proprio sana come la nostra, sicuramente il rischio e quindi anche l’opportunità, si accrescono). Questo significa due cose:
1- Che il motivo per cui è stata fatta questa operazione è sbagliato, o comunque non nell’interesse del risparmiatore che ci mette i suoi soldi, ma di altri
2- Che la pronta adesione massiva nel finanziamento di un mercato solitamente privo di liquidità, ha creato una bolla speculativa
Addirittura hanno iniziato a spostare la sede alcune società non italiane per poter accedere al mercato obbligazionario PMI italiano. E se c’è molta offerta (di liquidi) è ovvio che la domanda sale: in questo caso la facilità con cui queste imprese non proprio sane (quanti imprenditori piccoli/medi Italiani avete conosciuto voi di persona? Come li giudicate? Gli affidereste i vostri risparmi a prezzo di saldo?) vuol dire che loro potranno finanziarsi a tassi bassi, ovvero che il ‘rendimento’ (anche se alla fine positivo) non ripagherà mai il rischio.
Quindi anche se dopo i famosi 5 anni l’investimento in PIR (magari sfruttando la bolla) si rivelasse redditizio, probabilmente sarà stato inefficiente da questo punto di vista.
In Italia poi il piccolo imprenditore che è sopravvissuto è generalmente quello che è riuscito a barcamenarsi: a passare tra le maglie del fisco e della burocrazia, ad intercettare un business molto profittevole sapendo esporsi poco al rischio ed ai ‘costi’, a farsi pagare bene le ‘eccellenze’ senza fare mai sistema. Ma esporsi poco ai ‘costi’ che vuol dire? Che per ogni euro di ‘finanziamento’ all’economia reale, quello che realmente sarà il beneficio del sistema economico (e quindi indirettamente anche dell’investitore in quanto membro della collettività) sarà minimo. Sempre molto rischio per poco rendimento. Un mercato che, in termini di ritorno per l’economia reale, è secondo me anaelastico all’incremento della liquidità disponibile.
Questo sopra è l’andamento di un fondo azionario PMI in Italia… si noti che i PIR sono entrati in commercio da gennaio 2017.
E nel frattempo la produzione industriale delle PMI di quanto è cresciuta? Questi i dati CNA:
Non vi è un’asimmetria nei due andamenti? E questa asimmetria (tra la crescita delle valutazioni del capitale azionario e quella della produzione) con i soldi di chi si è realizzata?
Quindi i PIR sono prodotti che prenderei molto con le pinze, anche se il consulente finanziario di turno li potrebbe proporre mettendo in luce solo l’agevolazione fiscale (che c’è, ma non è una cosa fondamentale, la cosa fondamentale è che vi sia Gain e non Pain!).
Tra l’altro a fronte di questo ‘vantaggio potenziale’ vi è la certezza che dalle varie SGR e compagnie assicurative i prodotti PIR non sono stati certo allineati con il catalogo dei prodotti di risparmio a minore tariffazione commissionale. ADDIRITTURA alcuni ETF, se son PIR, costano il DOPPIO:
La frase ‘io in pensione non ci andrò mai’ è ai nostri giorni un non-divertente ritornello, che spesso viene accompagnato da qualche faccina triste sui social, da una risatina semi isterica nelle discussioni dal vivo o da qualche emoticons stile ‘mai1gioia’ su whatsapp. Quanto grave sia la situazione che si abbina a questa ‘resa incondizionata’ di fronte ad una situazione previdenziale disperata per tanti non-solo-giovani nessuno di noi vuole stressarsi troppo a pensarci. La generazione degli attuali trenta-quarantenni non ha generalmente avuto grandi soddisfazioni dal lavoro, né una politica ‘amica’ che gli ha organizzato concorsoni, condoni edilizi e scale mobili, ma si è rassegnata agli schiaffi, al precariato ed allo sfruttamento. Però è abituata ad avere ‘qualcosa’, qualcosa che gli attuali sessanta-settantenni magari non avevano da giovani: case di proprietà, mantenimento agli studi, piccoli o medi beni di famiglia, forse pochi fratelli con cui spartirseli. Quindi alla pensione non ci si pensa troppo, come tanti fumatori da due-tre pacchetti al giorno si preoccupano di più di come racimolare i soldi per le sigarette di questo mese piuttosto di che fine faranno i loro polmoni. Soprattutto perché di fronte ad un contesto lavorativo di questo tipo l’ultimo pensiero è la pensione. E poi, diciamocelo, trenta-quarant’anni fa essere precari a trent’anni era una catastrofe, oggi si vive lo stesso, allo stesso modo, molti si dicono si farà in qualche modo tra trent’anni per la pensione. Ci penserà lo Stato, ci si affitterà il box auto dei genitori che, se ancora vivi, certo non guideranno più, ci si venderà la casa ereditata dai nonni a Rocca Cucca, si metterà su un Bed&Breakfast utilizzando una stanza di casa grazie a TripAdvisor… oppure alla fine il babbo ci ha già messo da parte un bel po’ di soldini per aiutarci.
Sì, forse… o forse lo Stato che già non regge l’attuale situazione previdenziale oggi, potrebbe fregarsene domani, soprattutto con pensioni contributive da pagare (che quindi si alimentano con contributi accumulati) che avranno magari messo da parte pochissimo, causa precariato e periodi di incostanza. Immobili, box e case a Rocca Cucca saranno quindi un bersaglio facile di tasse crescenti… sempre se qualcuno vorrà ancora affittarsi tutti questi box e passare l’estate a Rocca Cucca, TripAdvisor poi bisogna vedere se ancora esisterà… se ottantenni provati da lavori stressanti fino a settant’anni si sarà in grado di farlo fruttare, se incapaci (causa spesso le circostanze) a trovare un lavoro stabile si sarà capaci investire proficuamente i beni di famiglia e mantenersi con quelli in età avanzata senza farseli fregare. Tra l’altro il crollo delle nascite della crisi non lascerà questo esercito di figli ad occuparsi di tanti anziani, e sperare che i figli di seconda generazione degli immigrati di oggi provvedano a qualcun altro che non siano i loro genitori è… una speranza appunto.
Eppure molti diranno: sì, ma io il pane oggi per un fondo pensione che potrò toccare tra 25 anni non posso proprio togliermelo dalla bocca.
Ma se invece la ‘pensione’ non la si prendesse quando Fornero e suoi eredi vorranno, bensì dal prossimo mese? Indipendentemente dalla nostra età? Tramite strumenti (non contributi ‘gestiti’ dall’INPS, mensa che deve dare da mangiare anche a invalidi, disoccupati etc…) di nostra proprietà? Passabili ai nostri eredi? Facilmente intestabili anche ai nostri figli in vita, volendo? Anche perché uno la ‘pensione’ ha più possibilità da godersela da giovane, che da vecchio.
Bene, parliamo di investimenti a cedola mensile.
L’argomento sui portafogli a distribuzione è vasto ed affascinante. Creare un piccolo patrimonio che tutti i giorni mi ‘paga lo stipendio’ fin dal primo giorno dell’investimento, senza dover rincorrere inquilini, farsi conteggiare IMU dal CAF e quant’altro è un’attività estremamente interessante, ma al contempo vasta e ricca di sfumature.
Riduciamo il campo, parlando oggi di ETF a Dividendo Mensile. Non abbiamo bisogno di costruire un portafoglio, con questi strumenti, per incrociare preziosi flussi di dividendi ed essere ‘approvvigionati’ ogni mese: ognuno di questi titoli paga tutti i mesi, con impeccabile regolarità, il dovuto.
Tranquillamente dal nostro Home Banking possiamo acquistarli, dal momento che sono Exchange Traded Funds, vendibili ed acquistabili in quote come le azioni, privi quindi di commissioni di sottoscrizione (se non un minimo diritto fisso di pochi euro dovuto alla banca dove abbiamo aperto il deposito titoli), privi di commissioni di uscita e che ‘sottraggono’ al capitale investito commissioni di gestione annui irrisorie rispetto ai fondi comuni d’investimento.
Su ETFPlus, il mercato di scambio ETF italiano, ne troviamo tre davvero davvero interessanti, i codici ISIN sono:
IE00BH3X8336 Emerging Markets Local Bond della PIMCO
IE00B9M6RS56 JPM Dollar Emerging Markets Bond della ISHARES
IE00BD8D5H32 Euro Short-Term High Yield Corporate Bond della PIMCO
IE00BF8HV600 Short-Term High Yield Corporate Bond Euro Hedged della PIMCO
I primi due investono in titoli di stato di Paesi Emergenti e gli ultimi due in obbligazioni alto rischio-rendimento di aziende ben al di sotto dell’investment grade. Replicando indici il rischio attivo verso un emittente ci interessa poco (il nostro investimento non si azzererà), tuttavia, pur trattandosi di investimenti legati all’obbligazionario, parliamo di mercati con il massimo grado di volatilità e di rischio.
Questo è il motivo per cui sono partito parlando di pensioni.
Il principale difetto di questo tipo d’investimento è l’inefficienza fiscale. Io acquisto quote di questi o altri prodotti a distribuzione ed inizio immediatamente a percepire un flusso di dividendi/cedole sul conto. Il problema è che ogni mese questo dividendo paga l’aliquota fiscale attualmente prevista del 26%. Se però vado a disinvestire il capitale, un’eventuale minusvalenza sul capitale non è compensata. In altre parole: se sono i soldi che mi servono per comprare casa tra qualche anno, nel caso in cui al disinvestimento avessi una ‘perdita’ rispetto all’importo investito, metterò nel cassetto la perdita e basta, mentre tutti i mesi avrò pagato una tassa sul ‘guadagno’ di ogni cedola. Se ipoteticamente avessi preso meno cedole del capitale perso a fine investimento avrei pagato tasse sul capital gain pur avendo in realtà perso…
Il discorso cambia se io sono focalizzato sulla rendita: i soldi che investo in questi titoli non ho intenzione di investirli in un orizzonte temporale tale da rendere abbastanza plausibile (data l’alta volatilità) un’ipotetica perdita in conto capitale, insomma un tempo sufficiente da potermi ‘permettere’ di aspettare che recuperino almeno l’importo investito iniziale. Del resto i nostri bei contributi l’INPS non ce li ridarà mai… il nostro box auto da affittare a meno che non facciamo gli immobiliaristi resterà ‘investito’ almeno dieci anni per non rischiare perdite più grandi dei guadagni etc…
Andiamo a recensire i nostri ETF:
IE00BD8D5H32 e IE00BF8HV600 della PIMCO investono entrambi in obbligazioni alto rischio-rendimento, tuttavia scegliendole tra quelle a breve termine, ovvero prossime alla scadenza. Questa strategia va molto di moda in questo periodo di tassi bassi ma in potenziale rialzo.
La duration di un titolo può essere abbassata in due modi: aumentando il flusso atteso cui bisogna ponderare la vita residua dei titoli in portafoglio (e i prodotti ad alto rischio pagano cedole più alte) e abbassando la durata stessa andando a scegliere titoli prossimi alla scadenza. La combinazione di entrambe le caratteristiche, come in questo caso, va controcorrente verso un ipotetico rialzo dei tassi. E’ una delle tipologie di Bond che potrebbero costituire un rifugio. C’è però un problema: titoli di questo tipo mantengono una forte esposizione alla valuta, inoltre titoli a breve scadenza rendono di meno. Quindi o sacrifico la redditività (andando ad investire comunque in obbligazioni con basso merito creditizio, ma che non mi pagano abbastanza questo rischio) o incremento la volatilità (voglio la cedola alta anche se l’obbligazione sta per scadere e quindi compro proprio spazzatura… andando quasi a ‘scommettere’). Quest’ultimo discorso viene un po’ attenuato dalla natura dell’investimento: sono ETF, replicano un indice, non fanno gestione attiva e quindi pur camminando sui carboni ardenti, medieranno automaticamente, investendo su tutto il benchmark. Sarebbe rischioso, salvo grande fiducia nel gestore, acquistare un fondo flessibile o TRN con la medesima strategia d’investimento, soprattutto se c’è una commissione di performance: il rischio è che il gestore vada a ‘rischiare’ davvero tanto non diversificando i titoli pur di ottenere rendimenti altissimi su scadenze brevi. Se va bene farà incetta di stelle da Morningstar, ma se va male… non credo che recupererete facilmente i vostri fondi. Un esempio di questa gestione speculativa su obbligazioni in fondi flessibili sono fondi ‘famosi’ per le performance leggendarie realizzate sull’obbligazionario come il H2O Multibonds R (ISIN FR0010923375), se avete voglia di leggervi i rendiconti trimestrali vi accorgerete che il gestore, tramite una strategia flessibile, in questo caso ha fatto incetta di titoli di stato ad un passo dal baratro come la Grecia, concentrando intenzionalmente il rischio. Ecco, con questi ETF voi anche no. Il IE00BF8HV600 ha l’hedging sull’euro. L’hedging ha solitamente un costo, ma abbatte uno dei rischi più importanti: quello della valuta. L’altro è più esposto al dollaro, ma quando i tassi risalgono il rischio è anche opportunità. Ricordiamoci che i bond corporate inclusi in questi indici hanno visto ridurre al minimo storico i tassi di default negli anni dell’immissione di liquidità delle banche centrali, quando i rubinetti vanno a chiudersi che cosa accade? A che tassi potranno finanziarsi? La volatilità probabilmente sale, ma senza panico: la durata media dei titoli nell’indice è breve. Del resto in caso di disallineamento della ripresa dei tassi tra euro ed altre valute la valuta stessa potrebbe essere una compensazione. Quindi in un momento come questo, volendo investire nell’High Yield Short Duration per assicurarmi la mia ‘pensione cedolare’ li comprerei in coppia.
IE00B9M6RS56 ETF in bond emergenti della Ishares è uno dei titoli che mi piace di più, in passato mi ha dato grandi soddisfazioni. Dividendo generoso, replica abbastanza fedele di un indice ben strutturato. Quota in dollari, ma ha l’hedging sull’euro. Questa però, a differenza dei precedenti, non è l’unica differenza con il suo ‘fratellastro’ della PIMCO, il IE00BH3X8336. Quest’ultimo, oltre ad una esposizione alle valute emergenti (il primo compra titoli di stato emessi in dollari, e poi ha la copertura verso il dollaro, l’altro li compra in tutte le valute… pure la pizza di fango… senza copertura. Ricordiamo però che a grandi rischi corrispondono anche grandi opportunità, l’euro è altino), è un ETF più piccolo, molto meno scambiato (al pari degli altri due Pimco, che non sono paragonabili al nostro Ishares). Tenete conto, investendovi cifre corpose, che il rischio liquidità, che esiste negli ETF e non nei fondi, sale… forse è meglio scegliere un fondo se volete concentrarci una parte cospicua dei vostri beni. I bond emerging markets nel mondo dell’alto rischio alto rendimento sono un po’ la controparte dell’high yield: i secondi vengono considerati dagli addetti ai lavori un’altra faccia dell’azionario, zuppi come sono di bond dal basso rating, i primi invece in alcune fasi storiche hanno ‘intercettato’ i capitali in fuga da un azionario in crisi. La ripresa dei tassi in USA potrebbe drenare masse dai bond emergenti, che diventano meno interessanti, ma l’eventuale discesa dei mercati azionari che ne consegue potrebbe spingere a tenersi lontani dai corporate high yield e rifugiarsi in redditizi bond emergenti.
La scelta di questi 4 ETF non è quindi casuale: li giudico piuttosto complementari, e sarebbe interessante investirci in combinazione, certi di avere costruito così una rendita mensile. Magari negli investimenti obbligazionari flessibili e ‘innovativi’, con tutte le loro potenzialità, come il FR0010923375 ci andrei con prudenza… perché no, con un PAC che investe mensilmente la quota che non spendiamo su Amazon dei nostri bei dividendi del quartetto?
Lo so, qualche occhialuto gestore di fondi mi dirà ‘e il tracking error?’ ‘dove lo metti il tracking error?’. Già, investendo in un ETF ci riproponiamo di replicare il benchmark, sono nominalmente dei TRN, ma dei Total Return a gestione passiva che dovrebbero replicare l’indice. Però quando le cedole devo distribuirle non posso reinvestirle, e quindi il gestore deve tenerle liquide fino allo ‘stacco’. Questa quota di risorse non investite spesso ci fa scostare dalla replica del benchmark… e addio ETF-philosophy. Comunque, io non sono partito da un proposito di replica dei mercati (interessanti comunque, anche perché alternativi al classico obbligazionario ed azionario), oltretutto a mio avviso gli ETF a distribuzione mensile incorrono in meno tracking error proprio in virtù della distribuzione molto frequente che scarica spesso il nostro serbatoio di liquidità.
Chiudiamo il discorso con un bel conto della serva. Il Ishares JPM Emerging Markets ha pagato mediamente 29,18 centesimi di euro per ogni quota negli ultimi 12 mesi, considerando l’ultimo valore di 99,36 a quota parliamo del 3,53% lordo annuo. L’altro emerging markets della PIMCO ha pagato mediamente 43,41 centesimi di dollaro, considerando l’ultimo valore di quota di 69.47 e convertendo tutto in euro, parliamo del 6,09% l’anno. I due PIMCO obbligazionari high yield invece hanno pagato cedole uno per 1,23% e l’altro per 5,68%.
Ipotizziamo di investirci 100000 euro, 25000 ciascuno. Ogni mese otterremmo circa 344,375 euro al mese lorde (255 euro nette). Parliamo di cedole accreditate sul conto, non del guadagno degli ETF, che possono perdere valore, ma anche apprezzarsi (soprattutto nel medio-lungo periodo).
E invece la pensione? Ovviamente è ben altra cosa rispetto ad un investimento, ma beh, l’attuale coefficiente di conversione, se andiamo in pensione a 70 anni è del 6,378%, per un 67enne già scende al 5,7%. Centomila euro di contributi versati negli anni darebbero al nostro settantenne 531 euro di pensione LORDI al mese (su cui pagare la normale aliquota IRPEF). Il problema è che con un investimento i dividendi li prendete il mese prossimo, con il capitale investito vostro e dei vostri eredi (che nel tempo dovrebbe anche crescere) e l’investimento stesso che dovrebbe tutelarvi dall’inflazione, la pensione la prendete a 70 anni, la rivalutazione delle pensioni ed i coefficienti come vedete sono pessimi oggi figuriamoci in futuro, e i contributi versati all’INPS nessuno ve li restituirà mai indietro.